Lavagna poetica
L’amore e l’eternità (inedito)
L’amore è un bambino che gioca.
Gioca all’eternità senza sapere
che l’eternità è amore.
Si batte i pugni sul petto,
si dice immortale.
Poi la sua mamma muore.
E muore il bambino.
E muore il gioco.
Per l’eternità.
VI da “Lechitiel” (Terra d’Ulivi Edizioni)
Non regalate ai poeti altre parole,
non sanno che farsene.
I poeti non temono il dolore:
li trovi ancora là, nell’ora dell’addio,
in un limbo atemporale
dove non esiste la morte
e non esiste la vita.
Non regalate ai poeti il vostro cuore,
non vi ameranno:
loro vegliano, giorno e notte,
la salma assente del corpo amato
nella camera ardente
del vuoto d’amore.
Non cercate di salvare i poeti,
non vi seguiranno:
non usciranno per voi dall’inferno,
perché sognano di poterlo commuovere
e per questo riavere dalle fiamme
tutto quello che gli è stato negato.
XXIX da “Lechitiel”
L’errore fu credere di esultare nella tua bellezza:
la bellezza la gode solo chi la incarna
e chi la incarna non ti lascia entrare.
Osserva attentamente lo stare in pubblico dei belli,
nota con quanta volontà e costanza
nulla sia al caso.
Anche il più semplice gesto
è architettato per uccidere.
Dovrebbero ringraziare Iddio, la natura,
invece mietono vittime a favore di Satana.
Firenze risparmiami:
sono un imbuto che straborda
di capitelli e di capelli,
di marmi freschi e d’affreschi,
di finestrelle spalancate per cui intravedo
meravigliosi controsoffitti
e lampadari di lusso.
È disarmante l’atmosfera di questa città
unita al volto di certi angeli
usciti dalle chiese qua in giro.
Giunto in piazza della Signoria,
trovo un giovane polacco:
suona la sua chitarra per riportarmi indietro,
mentre mi passano sopra
carrarmati di bellezze
tra il gassoso e il liquido
che i miei occhi sanno bere
e le mie mani piangere.
A che mi serve sapere che è tutto illusorio?
Devo ammetterlo: esiste una solitudine del corpo.
XXXI da “Lechitiel”
Vieni più vicino,
ti soffierò sul viso
malinconia amorosa
che di Saba fu triestina.
Ti mostrerò, perché tu creda,
l’ottavo colore dell’arcobaleno.
Vieni, più vicino.
Chiamami cibo,
aspirami l’anima.
Anche l’aria che respiro mi sgomenta
se le nari non distinguono il tuo odore.
Trascorri in me,
nulla è cambiato.
Lo spirito non sanguina, muore
(ma rinascere è il mio mestiere).
E mentre la mente si ricompone,
s’adagia il corpo lentamente
sui rovi del destino.
Vieni, di più, ancora.
Torna a vibrare con me
nei tramonti dentro cui ti struggevi,
quando mistica
reclinavi il capo,
annuendo laggiù a qualcuno.
Riscaldandoti da un’altra parte.
XXXIX da “Lechitiel”
Il mio volto nello specchio è sempre un altro.
Un capello bianco, due, tre, quattro.
Dov’è finito il neonato?
Dove il bambino?
Dove il ragazzo innamorato?
La bellezza di ognuno,
uccisa in eterno?
Il mio volto nello specchio è sempre un altro.
Quanti volti ho perduto
che mai più torneranno.
Quanti ruoli recitati invano.
Quante parti, quanti morti
sono già stato.
LXI da “Lechitiel”
Quando due amanti si baciano
due anime si perdonano:
per questo le lingue si muovono come dita
nell’atto di accarezzare.
E mentre le mani si danno alle mani,
mentre le fronti si sfiorano
e gli occhi condividono
l’immensità del buio,
le bocche dell’inferno
si scambiano piano
il veleno.
Il vero volto di un bacio è disperato, affamato;
il vero volto di un bacio, che sia ultimo o primo,
sempre ha il sapore di un ultimo saluto.
Al di là delle parole taciute,
oltre il tumulto generoso dell’eros:
“ricordati di me”, sussurrano i baci.
Salmo del fuoco (inedito)
Ciò che non sarà necessario,
non sarà salvato.
Nulla che sia di questo mondo
è necessario.
Si salverà quel che è già salvo,
che fu creato immortale.
Non di creta né di aria
né di acqua fu creato.
L’acqua che abbiamo raccolto
resterà qui a marcire
con la terra che abbiamo coltivato,
nell’aria che abbiamo respirato.
Oltre questa vita
porteremo solo il fuoco,
quello che abbiamo appiccato,
quello che abbiamo invocato,
quello che ci cremò
giorno per giorno.
Ecco:
il fuoco è necessario.
Io mi cammino dentro (inedito)
Io mi cammino dentro
perché intorno sono solo pareti
tranquillanti e parole
che mi dicono “resta”
o “vattene per sempre”.
E le tasche sono vuote
e verdi
e bucate dal peso dell’assenza di monete.
Non ci sono programmi per me
né viaggi in agenda:
c’è una nuova Gerusalemme
(a cui però non posso correre incontro)
statica nel suo luogo segreto
dentro la terra cava.
Fuori di qui, dal tempo,
di là da queste carnate mura,
c’è un’insperata Atlantide
da conquistarsi paziente
su di una sedia, accanto a un letto
o lungo viali mai percorsi, quasi innocente,
ricalpestando ogni giorno gli stessi tre passi.
Non ho bisogno di muovere un corpo
per sopportare lo stato d’arresto
e le mie mille celle.
Io mi cammino dentro.
Avanti e indietro.
Fianco a fianco.